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Aepok

by Ruina

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1.
Soglia 02:58
2.
Fauci 11:20
Attorno alla pioggia che consumava l’aria sopra al terreno color cenere, il cielo perlato si caricò di altri possibili oceani. Le strade, appesantite dai movimenti delle nubi, conducevano tutto verso il bosco; o almeno, così pareva. Esse si dirigevano alla parte della foresta ibridata con il mondo, rendendo possibile alle erbacce di opporsi al sasso con la malevolenza calcolata dai diluvi. Dove la fanghiglia si fondeva col pietrisco abitavano un paio di ali nere, un becco, un torace vestito di penne grigie, artigli e la violenta arroganza e l’onnipotenza istupidita degli dei bestiali. Il corvo beccava la terra ferendo il pantano accresciuto dal gracidio dei rospi, solcato dai torrenti che con minuziosa costanza avevano ridotto gli intestini delle colline in ciottoli. Non gli era più rilevante dove fosse il suo nido; difficilmente i corvi provano nostalgia, e ancor più arduo è che soffrano per la distanza dalla propria casa. Come scaglie di ebano, i suoi occhi sezionavano le folle di querceti che si incurvavano come braccia verso cielo e terra, a formare ripari dall’ombra verde per l’arsura e le piogge. Un solo insopprimibile proposito stava impresso come una runa nel cranio del cacciatore: divorare, mangiare, consumare la realtà e ordinarla alla sua fame; assecondare, con la propria avidità, il naturale processo che comandava a ogni cosa il dissolvimento. Il corvo continuò a mordere la terra con il nero becco, non solo suo, ma di infiniti altri corvi che si trovavano in lui come una moltitudine di ombre. Impugnando fra gli artigli la polvere umida, perseverò nel suo scavo; semi, germogli di fiori che l’acqua ancora non aveva suscitato: ogni cosa lo colmava di forza, fluendo nella fucina del suo stomaco. Mangiando, con la lenta determinazione di una colata lavica, crebbe spietato. Cominciò consumando poco a poco il terriccio. Si nutrì delle pietre, dando l’oblio alle scorie del suolo dentro la sua gola. Si rese furtivo per predare gli scoiattoli schivi, le volpi urlanti; crudele, per sovrastare i lupi ringhiosi, gli orsi massicci. Quando terminò di stanare ciò che respirava, divenne colossale. Sradicò le selve, intrappolate fra le sue unghie come topi: scuoiò i pini scagliosi, spogliò della corteccia bianca le betulle, dilaniò le radici delle mangrovie. Fu poi la volta delle montagne, che inghiottì nel silenzio. Con la lingua immersa nel color ferro dei mari li bevve, senza sopire la sete che lo consumava. Senza quiete, si scoprì capace di celare con le ali la distanza fra Terra e Luna. Innalzatosi, pazientemente rose negli anni anche il sasso pallido che aveva illuminato le sue notti di caccia. Ciò che rimaneva della Terra, la roccia formata dall’implosione di innumerate stelle e il suo centro, luminoso come un frutto, tutto venne inghiottito senza ordine. Si ornò del Sole come di un gioiello, di un futile vezzo di cui presto ebbe noia e nausea. Quando infine le sue piume copersero anche le nebulose, banchettò con i rimanenti astri. Si ritrovava sovrano del vuoto. La Morte era ridotta ad un orpello infranto, quella stessa entità cui gli dei dovettero soccombere. Si accingeva a divorare anche il tempo, lo spazio intero lì, fra i suoi artigli. Poi, volato via da quell’universo, avrebbe cercato altri sistemi a cui imporre la sua famelica ferocia. Allora ricordò ciò che fu prima del suo invincibile proposito. Il bosco, coi suoi aguzzi legni che masticavano il cielo, era stato tutto ciò che aveva mai conosciuto. L’esistenza di quello che dimorava oltre i confini dei suoi ferini svaghi era ipotetica, e altri esseri si erano avvicinati alla sua corte là, prima del suo impero. Mai lui aveva domandato compagnia o calore. Mai essi gli chiesero alcunché. Si attanavano con lui in quel nido di foglie. Questa convivenza fra inselvati, tale vicinanza lo accontentava. Seppe il volo ubriaco dei calabroni, le sagome nere e gialle delle salamandre, le bocche delle locuste, la cecità delle talpe; apprese i canti dei salici, le esili astuzie dei ratti e i segni segreti che la terra produce. E infine vide le scimmie nude, le più insensate e dubbiose creature che avessero mai battuto il passo sul fango. Conoscere il pelo, la carne e il sangue che si dibattevano attraverso la polvere lo mutò. Il corvo, che mai aveva avuto necessità oltre al cibo, cominciò a covare desideri. Divenne avido, volle possedere quell’ammasso pulsante di vita, fare in modo che tutti gli altri esseri provassero un irrinunciabile bisogno di lui. Questo lo avrebbe placato e soddisfatto. Iniziò facendo fluire nel proprio spirito gli altri corvi, tutti gli stormi; fu una prova semplice della propria volontà, guidata com’era da scopi supremi. Divenne ogni corvo esistente; e tuttavia, non fu sufficiente. Gli esseri rimanenti non rinunciavano ad essere bosco, insetto o folgore. Gli concedevano unicamente l’essere corvo. Fu per questo che si diede a divorare l’universo. Se non fosse riuscito ad essere gli altri, gli altri dovevano trovare spazio unicamente in lui. Il corvo smise di ricordare. Contemplò dolente la sua opera, l’interminato spazio del nulla. Non è certo se comprendesse la propria cupidigia, ma gli fu chiara la natura della propria fame. Essa non poteva essere saziata; non importava quanto lui persistesse: ogni suo banchetto eccitava ancor di più la sua brama. Allora finì il suo inutile pasto, sbranando il tempo stesso mentre ghermiva e soffocava tutto lo spazio. Per l’ultima volta, macellò il niente che lo circondava con gli occhi. Spiegò le ali, volò e aprì il becco immenso. Lo stesso essere che aveva corroso nella propria bocca ogni galassia si abbandonò nel vuoto. Depose lo scettro della propria volontà. Finì, una volta per tutte, di essere se stesso e si divorò, piuma per piuma.
3.
02:18
4.
Emet 17:29
Mi risveglio in lacci di silenzio e tenebra. Sopra alla mia tana ascolto i passi dei topi sull'erba secca. I campi si consumano in polvere sotto al sole e so che presto questo tempo si renderà al ciclo di morti e resurrezioni delle stagioni. La terra sarà trapassata dal grano che - regale - scanserà le sterpaglie. La caverna non ha rumori né bestie. L’acqua non ha voce nelle budella del monte, e ormai neppure il corso del mio sangue. Sotto alla mia pelle solo io ricordo quando il vento di questa regione mi scolpì per la prima volta le carni. Giunsi alla città coronata dai campi presso le pendici del monte senza nome. Il mio cavallo e la porpora della mia tunica dovettero impressionare i coloni. Al mio passaggio ammirarono i miei fasti, loro che erano vestiti di iuta. Gli uomini erano tozzi, nodosi, massicci come capri: parevano sculture di legno, sgrossate da approssimativi colpi d'ascia. La fatica degli aratri aveva scolpito in loro una sorta di brutale saggezza. Dentro agli occhi delle donne non ritrovai le malizie e i coltelli della mia patria, ma soltanto le braci antiche dei camini. Gli dissi che ero venuto per salvarli e proteggerli. In quel tempo ero conosciuto come l'Artigiano di fumo, il costruttore di maschere. Andavo di villaggio in villaggio, fingendomi stregone. A loro raccontai di essere venuto per alzare lo scudo dei miei incantesimi contro i pericoli che sarebbero strisciati fuori dall'ombra entro poche lune. Aggiunsi che dopo il crepuscolo avrei mostrato loro ciò che ero in grado di fare, così che mi potessero giudicare. Gli anziani ascoltavano attenti. Mai sembrarono dubitare della mia volontà d'aiutarli. Intendevo risvegliare il timore di una Bestia grande e molteplice che infestava da tempi immemorabili i loro racconti. Avvolto dalla caligine di una notte senza luna né stelle mostrai loro quanto bene conoscevo l'algebra dell'inganno. Mascherato da sovrano, con un bastone ingioiellato in pugno, narrai delle bestie oltre la montagna, che sarebbero giunte dall'est prima del raccolto per portare carestia e morte. I viluppi del falò illuminarono una folla di volti contratti dal terrore, di bambini coperti di fango avvinghiati ai polpacci delle madri. Continuai: solo un mago dal potere incontrastabile poteva tenere lontano l'orrore, circondando il villaggio con riti, glifi e sigilli. Gli porsi il mio potere. Mi avrebbero ripagato concedendomi un ozio totale nella pace del loro villaggio, aiutato da pochi pasti frugali. Inoltre, l'oro e i tesori sarebbero dovuti essere lasciati presso me, poiché l'avidità avrebbe potuto accelerare la venuta dei mostri. Alle mie spalle, le sagome d'ombra che i miei macchinari proiettavano sulla parete di roccia e le astuzie degli specchi accrebbero la loro credulità. Finsi nella fuliggine spettri ripugnanti, con ali e bocche di fumo. Ingigantito dalle fiamme che foravano il buio mi credettero potente come un Dio. Osservai la loro superstizione e ne risi. Gli Dei, se mai esistettero, erano già stati consegnati all'oblio, forse suicidi per invidia dell’onnipotenza umana. Mi supplicarono di essere il re di quelle terre ed io accettai. Ad ogni aurora il tappeto di ori attorno al mio trono cresceva. Uno stuolo di servi sfamava ogni mio capriccio. Il mio letto non fu mai privo di donne pronte a sopire e a subire la mia pigra lussuria. Feci tagliare mani e lingua a chi ancora dubitava della mia tirannica e pigra forza. Il re del grano, del resto, non doveva permettere alle malelingue di dibattersi. Ingrassai, persi l'acume asciutto che mi aveva reso ciò che ero. Poi su di me calò il crepuscolo. Il mio declino si annunciò con un tremore nell'aria. Poi una nube nera emerse dall'orizzonte, ronzando. L'aureola del mattino fu coperta da una tempesta di locuste e anche le pietre tremarono per l'ululato dei Demoni. L’orrore venuto dall’Est era infine giunto per inchiostrare la terra di segmenti d’ombre minute. Lo sciame si riversò sulle spighe con un rombo sordo che decapitò ogni altro grido e lamento. In pochi attimi quella folata di fauci divorò i campi. Smembrato ogni chicco, gli insetti svanirono ad ovest, lasciandosi dietro una carcassa di zolle e sassi. Invano cercai di scampare al fallimento: sorpresi i coltelli dei miei servi ancora caldi di sterminio e sangue. Il mio cavallo giaceva in pezzi sul fieno, circondato da una folla di braccianti seminudi. Si volsero verso di me senza una parola e intrapresi il mio supplizio dibattendomi incappucciato fra le loro mani. Con i polsi legati e molte spade attorno mi gettarono nelle budella del monte, dove anche i pipistrelli temono ciò che c'è nel buio. I miei piedi non schivarono nessuna delle rocce aguzze che mi dilaniarono le carni. Cieco, mi incatenarono a un altro trono. Martelli spinsero chiodi neri nelle mie spalle, e i miei urli riempirono il buio mentre i miei torturatori mi univano al marmo. Leccai come un cane l'acqua scura e densa che mi gettarono sul volto, mangiai le radici amare che mi porgevano e il dolore si fece lontano. Giorni, ore o forse settimane dopo continuarono, infliggendomi gli schinieri di roccia che infransero le mie gambe. Mi consegnarono un nuovo torso di basalto, e ancora la morte non veniva a liberarmi da quel sarcofago di sasso. Supplicai più volte i miei torturatori di finirmi. Nessuna parola. I Soli e le Lune si moltiplicarono mentre il rituale continuava. Incisero glifi nelle mie ossa e nel mio sangue con ferro e fuoco, mentre le loro torce ardevano nere. Dettarono alla mia volontà il turno di guardia che avrei dovuto esercitare contro i Demoni, eterno ed incorruttibile lungo tutta l’eternità. Dopo un’altra razione di erbe amare, aprirono la mia schiena e trassero fuori dal mio corpo tutto ciò che non mi sarebbe più servito. Le mie viscere furono sistemate con ordine in uno scrigno e così i miei occhi e la mia lingua. Poi mi ricucirono lungo la colonna vertebrale. Gli anziani mi accerchiarono in quella che mi parve una notte totale, senza alcun inizio o conclusione. Mentre quei sacerdoti incappucciati da mantelli neri quanto il fuoco fra le loro dita intonavano canti, il terreno si fece fangoso. Il mio trono iniziò a sprofondare nella terra della montagna. Affogai nell’argilla che mi colò sull’anima. Immerso nel limo, pensai sollevato che finalmente sarei stato liberato. Quanto ero stupido. Ricominciai a sentire vigore nelle membra. Mi feci strada con braccia e gambe attraverso quel denso stagno e riemersi dal fango boccheggiando. Poi mi resi conto che non avrei avuto più alcun bisogno di respirare, mentre sentivo crescere in me un’eternità che odorava di caverne. Attorno a me, le fiamme diventarono di nuovo cremisi. Il sacerdote mi portò davanti a uno specchio di bronzo e mi ordinò di guardarmi, mentre ogni nervatura del mio nuovo corpo spirava il Verbo della roccia. La mia pelle, ruggendo bassa, si ispessì come la cotenna di un cinghiale in pietra, e la mia schiena si curvò come una catena montuosa. Vedevo di nuovo ogni cosa, i miei occhi erano gemme di rugiada sul fondo dei cunicoli che le orbite mi scavavano nel cranio. Non avevo più capelli o unghie. Non sentivo più fame o sete. Accennai un passo. Nessun movimento. La mia nuova lingua fangosa poteva solo scandire ordini. “Obbedisco” fu la prima parola che seppi di poter dire. Mi ricondussi al trono, riemerso silenzioso dal fango che si era già indurito come un sasso. Seduto, mi misero una spada di ossidiana fra le mani e una corona di spighe ramate sul capo. Così inizia la tua guardia, Re del Grano, mi dissero. All’interno del mio sarcofago di basalto, dove non sento più il tempo, posso unicamente pregare per la venuta del mio carnefice. Dove sei, morte? Non sono degno del tuo nome, proprio ora che più ti desidero? Cosa credi? Che gli Dei mi stiano punendo per la mia disonestà? Stupida. Non sono state le mie menzogne a condannarmi. Io sono la radice e il ramo di me stesso e delle mie sciagure. Che cosa vuoi dimostrarmi ancora? Forse che il tuo prezzo è un’esistenza immersa in un pantano di dolore? Potrei disfarti con una spirale di fumo, proprio come ho fatto con questa mia vita. Morte, tu non esisti né mai sei esistita. Sei una scusa per i pigri, un blasone per i deboli. Ora vattene e lasciami alle mie illusioni, mi sono annoiato da tempo del silenzio con cui riempi l’universo. Io sono ancora regale, tirannico, mostruoso, bugiardo. Tu che cosa sei?

about

Ruina [ru-ì-na] è un termine dantesco che, fra Piemonte e Lombardia, raccoglie un gruppo di persone dedite a teatro (Dario Bassani), musica elettronica (H!U e Durma) e illustrazione (Eyefish) sotto il segno della Narrazione.

Dario Bassani: Storie / Voce

H!U: Ambienti / Synths+Macchine

Durma : Ombre / no-input mixing

Eyefish: Cornice /Voce+Inchiostri
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Riccardo Gamondi: Mastering

credits

released December 19, 2015

Aepok è un tentativo di raccontare storie attraverso alcuni dei più antichi modi per narrare – la lettura a voce alta e il disegno – sostenuto da uno dei più recenti frutti della tecnologia sonora – la musica elettronica e la sua capacità di evocare immagini, sensazioni e presenze.
Queste forze sono messe al servizio di una raccolta di racconti brevi che descrivono le vicende di due personaggi, appartenenti a un universo narrativo sprofondato in uno stato di disgregazione perenne per via delle continue apocalissi che lo devastano e lo costringono a ricomporsi da capo ogni volta.

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